La pittura di Angelo Lupi Tarantino nasce da un presente inquieto e difficile (non solo generazionale, ma anche personale) che si annulla nel passato poetico dell’arte. E disseppellisce per noi, abitanti di questo nuovo millennio, il senso di cos’era e di cosa ancora può essere l’intensità e lo splendore della Bellezza.
Non si tratta di nostalgia, di cerebrale e fredda riesumazione di icone, come in tanta pittura anacronista di anni recenti, ma di un libero e naturale effondersi dell’artista in una dimensione che abolisce il tempo, addormenta l’ineluttabile crudeltà di Kronos.
Questa pittura si pone prima della storia e si identifica nel mito come fondazione di una complessa equivalenza tra “pittura del mito” e “mito della pittura”; affida il proprio messaggio artistico alla rappresentazione del mito, con l’ulteriore complicazione di identificare in esso la pittura e il suo significato.
Il ritmo narrativo che governa queste storie è quello di un’età disancorata dall’evento accidentale e legata, invece, all’archetipo.
Questa pittura si consegna con tutta la sua liturgia e i suoi tempi assorti di meditazione e d’esecuzione alla logica dell’inganno, attraverso cui l’immagine del mondo, la sua “figura”, si sostituisce alla sua realtà, ne diventa fondamento, intima e profonda ragione.
Cosi se il panorama della storia è uno scenario di rovine fatalmente votato alla catastrofe, il mito, in quanto paradiso felice di una inesausta rifondazione, si pone a garanzia dell’eternità creativa.
L’opera di Tarantino sembra sostenuta da questa idea fondante. Esprime il sempre rinnovato piacere del dipingere. Poiché nasce da una spinta interiore di forte intensità, seppure dominata entro una forma sospesa e classicamente contenuta, ne serba tutta la vitalità, il flusso come di un’onda di mare.
C’è una perpetua emergenza di vita che si stabilisce in forme elementari e metamorfiche, le situa in un clima di divinità che tuttavia non vale a renderle ireniche: resta sottile, impalpabile, il problema esistenziale, poiché il modello è lontano, all’orizzonte del tempo, e l’artista è qua, nel presente dell’agire.
Le immagini sono a un tempo parti di un unico racconto e autonome visioni liriche, composizioni allegoriche definite e attimi fuggevoli di una struggente e interminata favola pittorica. Le forme organiche, convesse, forniscono l’idea della fecondità, della maturità, e di un eros libero e felice.
Le figure di Tarantino sono memori, nel loro corpi disarticolati e metamorfici, delle figure mediterranee di Picasso, dei Re e delle Regine di Moore, della gioia di vivere di Matisse, dei personaggi surreali di Savinio, o, laddove la figura si sfalda in esiti più astratti, di certi luminosi ritmi rotatori del cromatismo orfico.
Tutto è all’insegna della levitazione: i corpi danzanti, perlacei, la natura solare, mai definita o descritta, ma accennata in una sorta di vaporosa spazialità cromatica, i pochi oggetti rappresentati.
Tarantino vede l’esistenza umana entro una sfera di esistenza cosmica, quasi come un grandioso fenomeno della natura: così le monumentali figure sono generalmente acefale o senza volto, nella lontananza atemporale di un’età arcaica o perse nel mare della fisicità. Sono elementa nel senso euclideo originario.
La sovranità assoluta è affidata ad una pittura che ha un corpo strutturato a tutto tondo, una sua pastosa composizione cromatica “riscaldata” da uno spessore edonistico. Lievi e sapienti stesure di colore addensandosi in effetti tattili e opalescenti determinano i contorni e i volumi dei corpi o, al contrario, ne riducono la consistenza. Trasformandoli in eteree ed astratte accidentalità cromatiche.
Volano le immagini in danze pagane e le forme sembrano sollevarsi leggere ed espandersi come nuvole gassose in un aereo soffio, lo pneuma che attraversa tutta l’opera.
Leggere questa pittura è come leggere un sogno: tesse l’immagine lentamente, come l’inconscio tesse il sogno. E al territorio dei sogni appartiene l’universo denso, sensuale, un po’ da “principio del mondo” di Tarantino, il suo paradiso perduto.
Quei fascinosi incanti, quegli universi iperuranei ci ricordano, tra l’altro, che il bisogno di mito è uno dei segni distintivi del nostro tempo e germoglia proprio sul terreno dello scetticismo, come antidoto alla caduta della speranza e al lutto delle illusioni.


Acrilici e catrame su tela, 60×50 cm. Collezione privata.




Collezione privata.