Una diffusa tendenza che francamente non sopporto è quella di adoperare nel dibattito culturale, in un modo che vorrebbe essere colto ma spesso risulta solo ridicolo, l’etimologia, in particolar modo quando si parla delle cosiddette lingue classiche, il greco soprattutto. Si apre un discorso con enfasi – ore rotundo avrebbero detto gli antichi, che già avevano ben chiara la differenza tra l’autorevolezza ostentata e quella reale – e si enuncia il criptico ma evocativo termine spiegando per quale ragione dischiuderebbe misteriose connessioni. Ovviamente solo per chi è iniziato, ça va sans dire, per chi è in grado di comprendere le ragioni di quella che è considerata l’unica vera lingua “geniale” (termine davvero in voga nella divulgazione sul greco antico), in grado di aprire la mente e fornire competenze in tutti i campi dello scibile umano. In questo approccio, in cui non è affatto difficile riconoscere una matrice elitistica, sembra ancora di sentire gli echi di quella riforma Gentile che aveva attribuito esclusivamente al liceo classico il compito di formare le menti della classe dirigente, relegando la cultura di matrice diversa a un ruolo subalterno, impostazione che in Italia ha ancora lasciato degli strascichi culturali duri a morire quanto infondati. Proprio perché sono una persona che fin dall’adolescenza ha avuto contatto con la cultura classica e che ha deciso di farne una parte importante della propria vita culturale e professionale, un’impostazione di questo tipo mi è sempre sembrata mancare clamorosamente il bersaglio. Più si studiano le lingue e più risulta chiaro come tutte nascondano una straordinaria ricchezza culturale, perché gli strumenti che i popoli del mondo hanno ideato per comunicare sono anche eccezionali chiavi d’accesso alla loro società e alla loro cultura e sono, naturalmente, strumenti del pensiero. Non esistono lingue particolarmente “geniali”, ma a loro modo lo sono tutte, per gli stimoli culturali che offre sempre la riflessione sulle parole, quando si parla delle stesse senza atteggiarsi a vati e senza sfoggiare quel latinorum che è il contrario del sapere fatto di condivisione che rappresenta l’ideale al quale si dovrebbe tendere.
È con questa disposizione d’animo che mi appresto, quindi, a dire che cosa si può vedere nel krínomai che dà il titolo a questa rivista, che si affaccia oggi in un panorama editoriale sovraffollato cercando di far sentire la propria voce. E partiamo, quindi, dall’etimologia della parola, semplicemente individuandone le componenti, senza pretesa alcuna di dischiudere misteri culturali. Krínomai fa capo al verbo kríno, di cui è una voce di quello che si usa definire (in modo impreciso, ma molto diffuso) medio-passivo, quindi – semplificando molto uncomplesso discorso di storia della lingua greca che esulerebbe dagli scopi di questo saggio – potremmo dire che l’azione espressa dal verbo comporta, per esempio, coinvolgimento o impegno del soggetto, o un suo particolare interesse, potendo anche assumere una forma che in italiano corrisponderebbe a quella riflessiva o passiva. Il significato di base di kríno è “separare, distinguere” e, per compiere bene quest’azione, si sa, bisogna anche “giudicare”, esprimere valutazioni e prendere delle decisioni, come testimoniato dal termine krités, cioè “giudice – arbitro”. Si tratta di un sistema di significati che ritroviamo anche nel latino cerno (che significa appunto “separare, distinguere, decidere”), a cui è etimologicamente legato, la cui radice è pure in parole come “crisi” (perché comporta l’atto di compiere decisioni, scelte) e “critica”.
Ecco, la critica, dicevamo. In linea puramente teorica vi saremmo immersi, anche grazie alla notevole espansione delle modalità di comunicazione che rendono molto più semplice dare il proprio parere su tutto. L’atto della recensione, che è quello della critica per eccellenza, oggi è letteralmente alla portata di tutti e chiunque abbia a cuore la democrazia non può non esserne contento. Ma non si può, nel contempo, non essere preoccupati per il fatto che la scarsa formazione al dibattito e al confronto rende anche spesso i nuovi canali di comunicazione il regno dei discorsi d’odio, dell’aggressione non argomentata, della messa in ridicolo delle parole altrui con l’uso di armi retoriche in grado di fare davvero molto male, ledendo tante persone nei loro diritti. Avere a cuore l’ideale di una discussione che sia ricerca, dibattito, confronto, che sappia partire sempre e comunque dal rispetto per tutte le persone, è il modo in cui mi appresto a collocare la mia voce nella rivista nella quale sto scrivendo, che ha scelto di occuparsi, per l’appunto, di quell’arte del discernere che è la critica nel suo senso più ampio. Inoltre, attraverso l’uso del cosiddetto medio-passivo, Krínomai chiarisce che il primo oggetto di questa critica sono gli stessi autori, che si sottopongono e vengono sottoposti in prima persona al vaglio attento delle loro parole, pronti a mettersi in discussione e senza avvertire quest’operazione, che è il sale del dibattito, come un affronto o una deminutio capitis.
Perché la critica non lo è, appunto. Sempre parlando di recensioni, ma all’interno del circuito formale di quelle redatte da addetti ai lavori, dai critici propriamente detti, capita oggi di scorgere, invece, un atteggiamento opposto a quello della polarizzazione accesa e sterile dei social network, ma pernicioso in modo diverso. Le recensioni sono sempre più spesso melliflue e sperticate lodi degli autori il cui lavoro si commenta. Sono enfatiche enumerazioni di meriti attribuiti a libri spesso replicati in serie, che ripropongono rassicuranti luoghi comuni, oppure – in modo forse ancor più furbo – si presentano come portavoce del pensiero “scomodo”, anche se spesso non è dato sapere per chi o per cosa, visto che solitamente si tratta di una trita ripetizione di beceri stereotipi del pensiero reazionario, sempre cari all’establishment e tristemente in auge. Sempre più rare, le stroncature – anche le più argomentate, oneste e pacate, scritte partendo dal rispetto per l’autore ma soprattutto per i potenziali lettori del libro – suscitano spesso commenti banalizzanti con richiami a una presunta invidia, da parte del recensore, nei riguardi di chi ha scritto l’opera, come se l’atto del criticare dovesse per forza coincidere con quello di approvare, promuovere. La ragione di fondo del netto prevalere delle recensioni acriticamente elogiative, e del conseguente stupore di fronte a quelle che non lo sono, va individuata nel fatto che questo genere di contributi sono spesso scritti da persone che si trovano all’interno del circuito della cultura e della letteratura, alle quali naturalmente non conviene procurarsi quei nemici che una piena obiettività di giudizio e l’attenzione al lettore potrebbe portare loro. Quindi la recensione melliflua e apologetica, che è a tutti gli effetti un pezzo promozionale sotto mentite spoglie (ovvero l’esatto contrario della critica), si rivela una scelta più astuta, che potrebbe valere qualche invito in più agli eventi che contano e sui quali capita ancora che si costruiscano le carriere. Nessuno è, infatti, più benvoluto del critico che non critichi, anche se ha scelto di venir meno a quello che dovrebbe essere il principale obiettivo del suo lavoro: offrire il proprio onesto punto di vista al lettore, per consentirgli di formarsi il proprio. Il fenomeno è oggi molto ben rappresentato anche nei canali culturali definiti “informali”, cioè quelli presenti nelle piattaforme social. Anche in questo contesto, il sistema dei creatori di contenuti che si sostengono e promuovono a vicenda, attraverso il meccanismo “io rilancio te, tu rilanci me” è estremamente diffuso. È possibile in questo modo arricchire il proprio importante bagaglio di seguaci, ovvero la propria nicchia di influenza, collegata a sua volta a visibilità e introiti: essere un elemento di una community affiatata di content creator che si sostengono a vicenda è, quindi, spesso una scelta vincente.
Eppure, quando il critico, attraverso i propri rilievi, mette in evidenza elementi come la manipolazione tendenziosa dei fatti da parte di chi scrive, spesso sostenuta attraverso una disonesta selezione delle fonti e l’uso di stereotipi (aspetti che non di rado vanno a incidere sulla lettura di problemi importanti, distorcendone i contorni, o a colpire categorie di persone che per varie ragioni sono oggetto di discriminazione) si può vedere come si realizzi anche la funzione sociale della critica, che si somma a quella letteraria e culturale in senso più stretto.
I danni dell’acritica approvazione molto di moda vanno, quindi, a colpire anche questa importante funzione, attraverso la quale l’intellettuale propone non solo la propria lettura dei fatti ma richiama anche interessanti note metodologiche, suggerendo che esista la possibilità di scavare più a fondo, di esaminare fonti e circostanze in modo più corretto e completo e di trarre conclusioni diverse. Lo sviluppo del pensiero “critico” (appunto) – che discerne, scava, approfondisce, ed è obiettivo di base dell’istruzione secondo la pedagogia – passa anche attraverso questo.
A chi scrive è capitato diverse volte di segnalare, nelle proprie recensioni e nei propri articoli, alcuni aspetti problematici scorti in opere e iniziative altrui, senza naturalmente presentare questi rilievi come certezze inoppugnabili, ma cercando di argomentare le proprie tesi in modo adeguato. Talvolta, se in numero considerevole a proposito della medesima opera, queste argomentazioni, prese nel loro insieme, hanno assunto il carattere di vere e proprie stroncature. In teoria non ci sarebbe nulla di più naturale di un’operazione di questo tipo:
chiunque decida di togliere dal famoso cassetto il proprio manoscritto e di pubblicarlo dovrebbe sapere che tra le regole del gioco c’è il fatto che esso possa suscitare reazioni positive quanto negative o, peggio ancora, finire confinato nell’anonimato dell’indifferenza.
Nel prendere la decisione di pubblicare una stroncatura, personalmente ho sempre soppesato con attenzione il rischio di promuovere involontariamente un prodotto editoriale che giudicavo di scarso valore attraverso i miei rilievi, decidendo di farlo solo quando la notorietà già assunta dallo stesso mi faceva ritenere che valesse la pena di offrire al pubblico un punto di vista alternativo.
Talvolta le mie stroncature hanno avuto come esito il fatto di subire lunghe giornate di vivaci proteste, di dileggio e di tentativi di quella che in inglese si definisce character assassination, toni violenti inclusi, da parte dei seguaci dell’autore criticato (o direttamente da parte sua). La polarizzazione che caratterizza i moduli comunicativi delle piattaforme social, oggi oggetto di interessanti studi, lo rendono quasi inevitabile nel momento in cui l’autore che si è recensito negativamente abbia una fedele e affezionata fanbase, pronta a intervenire a difesa dal proprio beniamino, spesso oltrepassando abbondantemente i confini del confronto proficuo e pacato tra persone con idee diverse. Più che questo aspetto, che mettevo in conto, mi ha, però, colpito la reazione di alcuni professionisti della comunicazione che, nell’esercizio del loro legittimo diritto di critica del mio lavoro, mi dicevano che avevo sbagliato il metodo. Invece che criticare pubblicamente un’opera, avrei dovuto contattare in privato l’autore e presentargli con discrezione i miei rilievi, per aiutarlo a fare meglio in un’occasione successiva, senza correre il rischio di umiliarlo. Si tratta di un’osservazione che mi ha lasciato attonita proprio perché rappresentava in pieno il rovesciamento dei piani ai quali si è progressivamente assistito e al quale sembra che ci si sia assuefatti. Il critico, secondo questa lettura, non scrive avendo in mente il fine ultimo di offrire un servizio al pubblico, ma si fa complice dell’autore, ne occulta le debolezze e si presta a coprire le mancanze del suo lavoro. L’unica recensione possibile è quella positiva e poco importa se avrà come conseguenza l’acquisto di prodotti di scarso valore, contribuendo al generale abbassamento della qualità editoriale: l’importante è salvaguardare gli interessi di un’élite nella quale, magari, si aspira ad entrare, in barba all’interesse del pubblico.
Ecco, ciò che mi piacerebbe vedere nella rivista che con questo numero si inaugura è il ritorno alla dimensione più autentica della critica: quella di un cernere rivolto in primo luogo a sé ma che non ha paura di esprimere con serenità il proprio parere sul lavoro degli altri, intavolando un dialogo sereno e senza sconti. Un dibattito che valga, innanzitutto, la pena di essere seguito dal punto di vista del pubblico: troppe parole vengono scritte spinti solo da un senso narcisistico di autopromozione, utili solo a incensare e autoincensarsi per riconoscersi parte di un gruppo esclusivo. Ma l’aspetto più bello dell’uso delle lingue – lo si diceva all’inizio di questa riflessione – è proprio il fatto che sono strumenti di comunicazione, per condividere idee, per metterle sotto la lente di un microscopio, montarle, smontarle e permettere loro di dare interessanti frutti, che vengono dal confronto. L’augurio più bello – e, insieme, la chiamata alla responsabilità più importante – che posso fare a chi ha offerto e offrirà il suo contributo è quello di tenere sempre a mente il fine ultimo dell’atto di scrivere: suscitare qualcosa, auspicabilmente di buono, in chi legge.

